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di Federica D’Antonio
Donne,tecnologie e biopolitiche del corpo
“Il cyborg non riconoscerebbe il giardino dell’Eden: non è nato dal fango e non può pensare di ritornare polvere.”

“Sebbene entrambi siano legati alla danza a spirale, preferirei essere un cyborg piuttosto che una dea.” è la celebre frase del Manifesto Cyborg di Donna J. Haraway. Haraway (1985) sanciva il superamento del femminismo della differenza,umanista ed essenzialista e apriva le porte a una nuova prospettiva tecno-materialista e abolizionista del genere. La teoria cyborg prende in prestito dall’immaginario fantascientifico e cyberpunk , miscugli di carne e tecnologia, per caricarle di un potenziale rivoluzionario e di forza emancipatoria. Nasce così una nuova soggettività politica, un nuovo modo di pensare la corporeità,trasgredendo i confini.
Un saggio che va assaporato a piccoli morsi, non solo perché la prosa è così spesso ricca e commovente, ma soprattutto perché il lavoro della Haraway è così bello da far pensare. Guardando la copia non si può che commentare ogni riga, sottolinearne ogni parola, e così è difficile catturare la complessità del suo pensiero e trasmettere la passione e la rivoluzione del suo lavoro.

Leggere il manifesto è entusiasmante.
Per chi è immerso nella politica di una rivoluzione culturale: l’intreccio della vita e della carne con la tecnologia digitale, la cybertecnologia e gli immaginari genomici, e l’acuta necessità di preservare e custodire le cose del nostro pianeta di cui siamo una sola espressione.
In tutto il saggio sembra di viaggiare a ritroso per recuperare il senso di quelle cose come l’affetto, la cura, la relazionalità e l’immersione nel disordine, che sono così cruciali per fare conoscenza e per ricomporre il sociale. Mentre ognuna di queste è così facilmente esclusa dai tre principi della sociologia dell’empirismo, del funzionalismo e dell’argomentazione analitica, ciò che aiuta a invertire la direzione è una tradizione crescente che riunisce ciò che normalmente è tenuto a parte.
“La tecnologia non è neutrale. Siamo dentro ciò che facciamo ed è dentro di noi. Viviamo in un mondo di connessioni – e importa quali vengono create e non realizzate. “
Si tratta di una tradizione che preme sulla cultura della natura, che ricorda l’uomo come espressione temporanea e come composto delle stesse cose dei mondi che studia e che la tecnologia e gli animali sono tanto co-costitutivi del sociale quanto l’uomo. Mettersi in relazione con il mondo non è pericoloso solo per l’uomo e per il mondo ma, come sottolineano gli scienziati non possono e non devono farlo comunque perché non è una buona scienza.
Leggere il Manifesto e raccontare la scrittura di Haraway aiuta a sperimentare ciò che sta cercando di liberare: un nuovo modo di lavorare e di pensare come animali sociali. Ci aiuta a prestare attenzione a come tutti i confini che nascondono la nostra connettività, la nostra interdipendenza e la nostra relazionalità sono a loro volta connessi. I confini che la sua sfida di lavoro è tra l’umano e l’animale, l’organismo e la macchina, il virtuale e il carnoso, il letterario e lo scientifico.
In particolare, aiuta a illuminare come queste divisioni aiutino a sostenere le relazioni di asimmetria, dominazione e oppressione tra gli esseri umani e gli altri, compresi gli altri esseri umani, perché come queste divisioni sono lavorate corpo a corpo e manifestano asimmetrie di potere tra le diverse classi dell’essere: “ragionevoli”, privilegiate, potenti, spesso eterosessuali, bianche e maschili contro irragionevoli, svantaggiate, deboli, spesso nere e femminili, a volte anche gay o lesbiche. Ciò che lei afferma è come nel nesso di intrecci tra le divisioni ci siano possibilità di riproduzione di rapporti di potere asimmetrici, compresi i peggiori eccessi di guerra e di oppressione del capitalismo.
Eppure non ne è una critica totale della tecnologia e della scienza. Piuttosto ci offre un modo diverso di fare tecnologia e scienza.
Haraway, quindi, non mira solo ad abbattere le vecchie divisioni, ma a spostare l’attenzione e i modi di pensare che reinventano la loro connettività. Non solo ci mostra che non siamo mai stati moderni. Lei fa qualcosa di più.
Sta scrivendo la figura della tecno-scienza all’alba di una nuova era cibernetica, l’era della cultura digitale che ci sta per avvolgere. La sua preveggenza è straordinaria. La sua esortazione nel manifesto a capire come tutta la nostra invenzione e creatività tecno-scientifica possa essere srotolata per sostenere le relazioni di dominio, o premere invece sui rapporti di parentela e di connettività. Ricrea la figura delle persone come non mai pienamente umana nel senso del soggetto sovrano, ma come sempre in estensione con l’alterità, in questo caso l’alterità tecnologica.